Midterm USA, trionfano i repubblicani

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GAEPO
view post Posted on 4/11/2010, 13:11     +1   -1




Usa, i democratici non
perdevano così dal 1948 La batosta democratica va oltre la sconfitta che tocca al partito al potere. I democratici tengono al Senato ma escono distrutti dal Congresso E’ un rifiuto senza ambiguità della politica di Barack Obama quello che emerge dal voto di midterm. I repubblicani conquistano 60 seggi alla Camera. Avanzano prepotentemente al Senato. Si aggiudicano ben otto governorship prima detenuti dai democratici. Nella notte è arrivata anche la notizia che più ha fatto male al partito di Obama: la sconfitta del governatore Ted Strickland in Ohio. Il presidente e il suo vice Biden erano corsi proprio in Ohio, la notte prima delle elezioni, per sostenere Strickland. Un fatto simbolico, come simbolica è la perdita del seggio che fu di Obama in Illinois, passato al repubblicano Mark Kirk.

L’entità della batosta democratica va ben oltre la tradizionale emorragia di seggi che tocca al partito al potere nelle elezioni di medio termine. Qui la bocciatura appare senza appello. Era dal 1948 che i repubblicani non riuscivano a vincere in modo così largo. Nemmeno nel 1994, ai tempi della rivoluzione conservatrice guidata da Newt Gingrich, il risultato era stato così, per loro, confortante. Una prima veloce analisi dei flussi mostra che praticamente tutti i distretti elettorali degli Stati Uniti si sono spostati a destra. I democratici hanno perso il voto dei giovani, delle donne, dei neri, degli indipendenti. Aree elettorali chiave, in Ohio, Virginia, Pennsylvania – quelle abitate da un proletariato e da una piccola borghesia bianca che i democratici erano riusciti a riconquistare nel 2006 e nel 2008 – tornano in massa ai repubblicani. E, altro fatto altamente simbolico, i repubblicani riescono a rompere il monopolio democratico nel New England. Due seggi alla Camera in New Hampshire passano infatti ai conservatori.

Il carattere storico della vittoria repubblicana era chiaro, ieri sera, nelle lacrime di John Boehner, deputato dell’Ohio, destinato a diventare lo speaker della Camera al posto di Nancy Pelosi. “Il popolo ha parlato”, ha detto Boehner, presentatosi in conferenza stampa mentre lo spoglio dei voti era ancora in corso. Il suo tono, più prudente che magniloquente, l’emozione che si è presto rotta nelle lacrime. “Vinciamo soprattutto sull’onda della rabbia per i democratici”, ha spiegato lo stratega repubblicano Dan Bartlett. In più, il rapporto con il Tea Party appare un’incognita. Il movimento anti-tasse e anti-governo centrale ha svolto una funzione importantissima nella mobilitazione degli elettori di tutta America, e centrato due ottimi risultati con la vittoria di Marco Rubio in Florida e di Rand Paul in Kentucky. Ma il Tea Party si è anche dimostrato un problema, e un ostacolo. Il carattere estremo, radicale, di alcuni suoi rappresentanti, soprattutto sui temi della morale e della religione, ha impedito ai repubblicani di conquistare la maggioranza anche al Senato.

Per i democratici, inizia a questo punto la resa dei conti. Con un tasso di disoccupazione al 9,6%, e l’umore del Paese che tutti i sondaggi descrivono cupo e arrabbiato, la sconfitta del partito al potere appariva prevedibile. Ma qui, ieri, hanno perso davvero tutti, democratici di ogni tipo e orientamento: quelli conservatori come Blanche Lincoln, senatrice dell’Arkansas, nemica della sanità pubblica che Obama voleva votare; quelli centristi come Tom Perriello, uno dei più fedeli alleati del presidente, allineato a ogni richiesta della Casa Bianca, punito dagli elettori della Virginia: e infine quelli più a sinistra come Russ Feingold, colonna dei progressisti di tutta America, al Senato dal 1993, battuto in Wisconsin da Ron Johnson, un industriale della plastica senza nessuna esperienza politica, su cui si sono riversati milioni di dollari dai gruppi conservatori.

L’entità della sconfitta è tale che una messa in discussione del presidente appare inevitabile, dalla destra e dalla sinistra del partito. La leadership, il carisma di Obama, il suo appello avvolgente al “change”, appare un ricordo. Ovunque sia andato, durante questa campagna elettorale, il presidente non è riuscito a mettersi in sintonia con l’elettorato, non è riuscito a “vendere” le sue riforme: sanità, ambiente, finanza. Gli stessi democratici in corsa per la riconferma sembravano preferirgli, come testimonial nei loro comizi, il vecchio presidente Bill Clinton (che si è impegnato particolarmente in West Virginia, che non a caso resta ai democratici). Fonti non ufficiali della Casa Bianca descrivono un Obama particolarmente depresso, e sfiduciato. Il silenzio di Hillary Clinton appare un altro segno di una possibile riapertura di scontri e conflitti nel partito democratico. Per tutta la leadership del partito, il tempo a disposizione resta pochissimo. A gennaio si apre la campagna per le presidenziali 2012.

di Roberto Festa, inviato negli Stati Uniti

Il Fatto Quotidiano

Imo paga caro l'appoggio per la costruzione di una moschea a pochi metri da ground zero.
 
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Abbott_Juve
view post Posted on 4/11/2010, 13:49     +1   -1




CITAZIONE (GAEPO @ 4/11/2010, 13:11) 
Imo paga caro l'appoggio per la costruzione di una moschea a pochi metri da ground zero.

Secondo me paga più l'economia, che è sempre poi l'argomento principe di ogni campagna elettorale in America (chi le puttane e chi l'economia... :uhhh:). Dopo mesi di promesse e due anni di slogan la gente si guarda intorno e vede il più alto tasso di disoccupazione da trent'anni a sta parte.

Oltretutto c'è l'esplosione dei Tea Party che ha rivitalizzato il Gop che è, sinceramente, un partito oggi piuttosto imbarazzante. Mi auguro che in prospettiva 2012 nei TP prevalga l'ala seria (Rubio, Paul, etc.) piuttosto che le macchiette alla Palin. In quel caso il Partito Repubblicano potrebbe "rubare" la Presidenza ai Democratici già dopo quattro anni (presentando qualcosa veramente di nuovo, e non i soliti neocon del c***o alla Bush), altrimenti Obama rimarrà in sella fino al 2016.
 
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Abbott_Juve
view post Posted on 4/11/2010, 15:12     +1   -1




Liberismo e frontiera

Un film di Clint Eastwood, "Gran Torino", dice due o tre cose interessanti sullo spirito dell'America. Primo: non c'è auto bella e solida come una Ford prodotta nel midwest. Secondo: nessun governo sa difendere una famiglia meglio di un vecchio fucile. Terzo: persino i bifolchi del Michigan possono avere grandi ideali. Il successo dei Tea Party al voto di lunedì riporta le libertà dell'individuo - e il principic di autodeterminazione nei rapporti fra stato e cittadini - al centro della vita americana. Non è un dato elettorale, ma culturale. Su questo tema, il Foglio ha raccolto le opinioni di cinque esperti.

Per Edward Luttwak (storico ed esperto di geopolitica), "la Casa Bianca ha appena ricevuto un messaggio preciso. Gli americani vogliono prendere le decisioni che riguardano il loro futuro e si vogliono reinventare di continuo; il governo non può entrare nella vita dei cittadini; l'America non avrà uno stato assistenzialista perché quel modello non fa per noi". Luttwak dice che la genesi e l'ascesa dei Tea Party non hanno tempi casuali. "La crisi economica e la grande confusione del 2008 hanno aiutato un politicc attraente come Barack Obama, che ha sedotto gli elettori e li ha convinti a prendere una strada europea. Quando gli americani si sono accorti che il paese stava davverc cambiando, hanno prodotto una rivoluzione. Negli Stati Uniti la stampa di qualità ha presentato i Tea Party come una trovata folcloristica, ma la loro posizione contiene elementi tipici della cultura anglosassone Il movimento propone un grosso taglio della spesa pubblica: è quello che il premier David Cameron e il suo vice Nick Clegg stanno facendo in Gran Bretagna".

Antonio Donno (docente di Relazioni internazionali all'Università del Salento) dice che "il problema è lo stesso dai tempi del presidente Thomas Jefferson: il governo migliore è quello che governa meno" Per Donno, "i Tea Party riprendono la grande tradizione dei conservatori americani, che era stata abbandonata negli ultimi anni. Si ritorna alla centralità dell'individuo, all'antistato, in un certo senso anche all'isolazionismo. È il contrario rispetto e quanto professa Obama, ma le prime ripercussioni di questo fenomeno si avranno all'interno del Partito republicano".

La libertà non è una bolletta scaduta Secondo Marco Bassani (docente di Storia delle dottrine politiche alla Statale di Milano), "ci sono valori che hanno sempre fatto parte della cultura americana. I Tea Party vengono dalla pancia del paese e assecondano molti aspetti dell'identità nazionale: il concetto di fisco come 'rapace mano del governo' non è mai morto e non morirà presto. Per adesso, gli esponenti dei Tea Party si sono concentrati sulla lotta alla spesa pubblica, non hanno mai parlato di diritti civili o di embrioni, quindi non credo che la loro vittoria avrà conseguenze sulle grosse questioni sociali. La cosa certa è che il movimento copre uno spazio lasciato vuoto dai repubblicani. Dopo l'11 settembre, la destra americana ha ignorato uno dei suoi temi classici: ridurre in ogni modo il potere del governo".

Nicola Rossi (economista, senatore del Partito democratico e membro del comitato scientifico della Fondazione Italia Usa) non crede che la stagione dei Tea Party possa modificare il contratto fra i cittadini americani e lo stato. "Potremmo prendere in considerazione quella ipotesi nel caso in cui il movimento fosse davvero legato alle radici storiche del nome che porta - dice - Il problema è che nei Tea Party di oggi ci sono elementi di carattere religioso e morale che rendono il paragone inappropriato".

All'inizio della settimana, l'analista Ross Douthat ha scritto sul New York Times che i valori dei liberal sono stati superati in modo netto per la prima volta dopo vent'anni. In una intervista pubblicata ieri dal Foglio, lo studioso Scott Rasmussen ha sostenuto che gli americani vogliono dimenticare in fretta l'epoca dei salvataggi bancari cominciata nel 2008 e proseguita con le manovre da big government di Barack Obama. "Ritengono che quella sia la prova che il governo aiuta soltanto gli amici, lasciando la classe media a fare i conti con le regole del gioco", ha detto Rasmussen.

Per Carlo Stagnaro (direttore ricerche e studi dell'Istituto Bruno Leoni), "i Tea Party non sono soltanto populismo antitasse. L'idea è quella di ridurre l'influenza dello stato nella vita dei cittadini. Il successo del movimento dipende in gran parte dalla sua capacità di intercettare una caratteristica precisa dello spirito americano: è l'idea della Frontiera, il primato dell'individuo sulla collettività". Stagnaro dice che la vittoria dei repubblicani sui democratici (e dei Tea Party sui repubblicani) costringerà la Casa Bianca a modificare l'agenda politica. "Se ne va il paradigma europeo, il Green deal non esiste più, la riforma della sanità può subire un clamoroso passo indietro". Quello che rimane è lo spirito dell'America.

Da Il Foglio, 4 novembre 2010
 
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